Gennarino

Caro Nicola, sono trascorsi cinquant’anni da quando io e tuo zio Antonio siamo partiti da Procida per l’America. Ci pensi? Cinquant’anni…”

Dopo due tentativi andati a vuoto, finalmente il 10 aprile del 1963 riuscii ad incontrare zio Gennarino.

Partii da Napoli il 28 marzo del 1963 con la nave “QUEEN FREDERICA” per prendere imbarco sulla M/N ITALIA della HOME LINES che sarebbe arrivata a New York, sabato, 12 Aprile del 1963.

Dopo lo sbarco, nell’attesa di muovermi alla volta di Brooklyn,  presi alloggio in un albergo di New York  insieme ad una parte dell’equipaggio. Avevo dunque due  giorni a disposizione per organizzarmi: a Brooklyn contavo di incontrare quell’uomo in fondo sconosciuto, eppure a me cosi caro.

Arrivato finalmente a destinazione mi trovai davanti a una classica villetta a tre piani, costruita in mattoni rossi. Quando ne varcai, con un po’ di emozione, la porta d’ingresso, fui colto immediatamente da una sensazione di familiarità. La villa era arredata con gusto:  vivacizzava gli ambienti una carta da parati elegantissima nonostante i colori accesi.  Il mio sguardo indugiava sulle poltrone in velluto chiaro, poi si soffermava sulle stampe inglesi di fine secolo, sui pregevoli arredi Liberty e le delicate porcellane di Capodimonte: non sentivo affatto che migliaia di chilometri di mare e di terra mi separassero dalla terra natia.

Seppi poi che il primo e l’ultimo piano della casa erano occupati dalla famiglia al completo, che li animava con la sua vivace quotidianità.

Lo zio, invece, si era riservato nel secondo piano uno spazio di quiete e intimità, di silenzio e riflessione nel quale, con la sua calorosa accoglienza, già faceva sperare di introdurmi.

Esauriti i saluti ed i convenevoli con il resto della famiglia, infatti, mi ritrovai presto seduto nel salotto di Gennarino. Qualche minuto dopo, eravamo finalmente intenti a incrociare la mia vita con la sua voce e le sue parole.

“Cinquant’anni esatti” riprese zio Gennarino “dato che arrivammo a New York ad aprile del 1913!”

Parlando, fissava con i suoi grandi occhi azzurri un punto invisibile fuori dalla finestra, ridotta ad una lastra di un bianco accecante, per via della neve sul davanzale.

“Non ricordo che giorno fosse…”

“Quelli erano tempi difficili! Il sogno di noi ragazzi era di andare in America. Un sogno cosi grande da indurre,solo in quell’anno,circa 900 mila connazionali a lasciare l’Italia. E tanti erano i procidani…”

Notavo un disincanto ancora vivo nella voce dello zio, mentre sottolineava le parole con un gesto di disappunto.

“Erano anni difficili quelli: anni di miseria, di rinunce e di sudore. Anni di umiliazioni, di occhi bassi e di tante, troppe attese frustrate. Si partiva con la speranza di andare incontro alle braccia di un sogno, mossi dall’auspicio e dalla voglia di fare fortuna, di fare i dollari, ma anche di darsi una vita migliore, più dignitosa del nostro povero presente italiano” proseguiva Gennarino.

Benché parlasse con amarezza, il suo timbro era sicuro e coglievo con piacere l’accento ancora procidano della sua voce. Un accento confuso dal ricorso frequente all’intercalare newyorchese, e quella “erre” addolcita dalle tante parole e mezze frasi che lo connotavano anche come cittadino del Nuovo mondo.

Sentii ancora la commozione stringermi e insieme allargarmi il cuore: tanti, tantissimi uomini, donne, neonati, bambini e anziani, madri e padri, nonni e nipoti, poveri e poverissimi: tutti confusi nella voce di zio Gennarino, attori sconosciuti di quel grande, malinconico – eppure a tratti glorioso – sceneggiato di vita reale che fu l’immigrazione italiana di inizio ‘900.

Uno sceneggiato scandito dagli sbuffi fragorosi dei fumaioli dei bastimenti, dalle imprecazioni al seguito di un esercito sterminato di valige di cartone e dalle note – diffuse dai primi altoparlanti – della voce mai più eguagliata di Enrico Caruso.

Tutti ansiosi, ancor prima ancora di salpare, di un ritorno trionfale in Patria che, per quasi tutti, non avvenne invece mai.

“In quegli anni” proseguiva nel suo racconto lo zio “l’incubo per noi emigranti era Ellis Island, l’isola su cui venivano registrati tutti gli emigranti prima dell’approdo vero e proprio. Bisognava superare dei controlli , anche sanitari,  a dir poco meticolosi e non era mai una cosa facile.

Per aggirare questi ostacoli i parenti già sbarcati in America ci fecero aspettare un altro anno: era il tempo occorrente a racimolare la cifra necessaria per l’acquisto di un biglietto di seconda classe. Una cosa mica da poco questa” mi rivelò Gennarino, “era l’unico modo per ricevere il permesso di scendere a terra senza passare dall’isola che molti chiamavano già l’isola delle Lacrime.

Erano tante, infatti, le persone che non superavano quei varchi e che venivano rimpatriate senza troppe spiegazioni. Il viaggio di ritorno, così, diventava una vera tragedia.

«Una volta sbarcati, ci accolsero in casa alcuni nostri lontani parenti, come era abitudine tra le famiglie allargate dei migranti non solo italiani. E non trascorse molto tempo che cominciammo a lavorare come scaricatori sulle trafficatissime banchine del porto di NewYork…”

Come un fiume in piena, forse a causa del silenzio troppo a lungo sofferto, zio Gennarino continuava nel racconto spedito ma dettagliato della sua nuova vita.

Mi parlò dell’arrivo a Brooklyn e della sofferta separazione dal fratello Antonio, che non si era fermato con lui, ma aveva deciso di proseguire verso l’interno. Una pagina triste, quella, relegata nel capitolo dei sogni infranti del romanzo della sua vita. Il suo grande cruccio, infatti, era proprio il fatto che il suo fratello minore non avesse purtroppo avuto fortuna, come invece l’aveva avuta lui.

Insieme alla malinconia e ai ricordi amari, nelle parole di Gennarino coglievo appieno un certo senso di fierezza e come un moto d’orgoglio.

Nel suo discorso, ma ancor più nelle rughe scolpite sul suo viso dagli anni duri del lavoro, coglievo in tutta la sua luce, il vanto della comunità dei lavoratori italiani per il grande contributo dato alla società americana.

Uomini e donne capaci di costruire strade, di scaricare e governare navi, di innalzare grattacieli e fondare attività e imprese: uomini e donne capaci di costruire in anni di impegno durissimo un rispetto e una credibilità che resistono ancora oggi, a dispetto della triste e sciagurata epopea criminale delle imprese di stampo mafioso.

Mentre Gennarino parlava, le ombre sempre più lunghe nella stanza annunciarono il buio della sera, ma questo tuttavia non sembrò intralciare l’incedere del suo racconto. Un racconto che, dopo i tanti aneddoti e i tanti rimandi alle sue esperienze di vita, non potè impedire che all’improvviso, tra le tante affermazioni, facesse capolino una domanda. La domanda che sin dal mio arrivo in quella casa aspettavo con trepidazione: “Papà come sta?”.

Senza aspettare la mia risposta, zio Gennarino cominciò a rievocare il giorno del 1913 in cui aveva lasciato quel bambino di 12 anni, mio padre. Se ne era separato affidando a Immacolata la raccomandazione che proseguisse gli studi, specialmente in un momento come quello in cui i fratelli maggiori avrebbero avuto forse la possibilità di aiutare economicamente la famiglia.

Era come se ci tenesse a farmi sapere che Alberto era portato per lo studio, ma in realtà da quel momento, e forse anche da prima, ebbi chiaramente l’impressione che lo zio non si stesse rivolgendo a me, ma a mio padre: una sensazione che si fece quasi esplicita ricordando le rimesse effettuate e i quanto mai agognati pacchi che per anni avevano sorretto il claudicante e disagevole sviluppo economico delle famiglie procidane e italiane.

Io ascoltavo rapito, ammaliato, e spesso commosso.

Non riuscivo a interrogarlo e nemmeno ne avevo il coraggio, nonostante in cuor mio serbassi il bisogno sempre più incontenibile di porgli le tante domande che avevo in serbo per lui. Forse perché sapevo che, dopo quel primo incontro, ci sarebbero state ancora altre occasioni, tenuto conto del fatto che la nave sulla quale dovevo imbarcare  faceva scalo settimanale  a New York.

Soltanto verso la fine del nostro incontro affrontammo il discorso sulle origini di mio padre, anche perchè in fondo io conoscevo già la risposta. Lo zio Gennarino era a conoscenza soltanto di quello che la madre Immacolata gli aveva raccontato quel lontano giorno del 1901, quando si presentò a casa con la cesta in cui dormiva il piccolo Alberto. Nessuno di loro aveva mai osato chiedere a Immacolata null’altro di più .      

Nicola Silenti

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